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Muntagne del mé pais
Scritto da Somadaj   
Sabato 01 Giugno 2019 09:30

 

 

 

Muntagne del mé pais… 

                                                                     primi mesi 2007

       A volte ci si ritrova così, quasi casualmente. Con vecchi amici, antiche fiamme, persino con cugini stretti che le strade del mondo hanno condotto per di là mentre tu sei andato per di qua. Così rieccomi, dopo anni, riprendere a giocare con il cuginetto Geo Sergiulin. Prima qualche passeggiatina ciacolatoria qua e là per la città ed i musei, poi lungo la tagliafuoco del Musinè, terreno di tanti meravigliosi allenamenti. Passeggiate che hanno ridestato ricordi montani mai del tutto sopiti ravvivando tizzoni che ancora covavano sotto la cenere. Le due camminate successive provocano quasi un incendio!                                                                            

     Il 15 febbraio la prima, quella delle “Foglie Secche”, camminando sul sentiero che bordeggia la Rocca della Sella. Non lunga, ma tribolata perché nessuno ha provveduto a ramazzare dallo stretto e spesso “bobbistico” sentiero le foglie cadute, così che sotto di esse si celano “pietre mobili” e scivolose, nonché voragini dove ci si infila fino al petto. Quasi…      Sergio, Giancarlo e Dazio (il secondo un amico “montanaro” del cugino, Dazio amico del cugino, ma che conosco dalla giovinezza) si sprecano con i consigli. “Nelle foglie devi fare scivolare i piedi rasoterra, sui sassi alzare bene le gambe… Non allungare troppo il passo… Prima di lasciare l’appoggio accertati della stabilità di quello che vai a impegnare… Non ti voltare mentre cammini: fermati”. E via di questo passo. Per non parlare della “botanica”, che pare essere nozione prioritaria – parallelamente alla meteorologia ed alla “nomistica” delle vette – che ogni vero escursionista ha l’obbligo di condurre con se nello zaino mentale. Ecco perciò nomi come Carapina Spugnola, Poliporus, Betula Pendula sbatacchiare e fare a pugni nel risicatissimo spazio craniale in mio posseso.

     Vicino il luogo; all’entrata di Rubiana subito a sinistra a raggiungere con una strada stretta e tortuosa Comba. Bella e non impegnativa la passeggiata che si svolge sul fianco della montagna prospiciente la Sagra di San Michele. Raggiungiamo solamente la Fontana Barale in quanto il percorso è reso “pesante” dal fondo, e Dazio si trascina su delle ginocchia oggi veramente disastrate. Lodevole la determinazione, la grinta da tosto montanaro che profonde nel marciare al nostro fianco.  

 

 

       Il 21 dello stesso febbraio si sale al Monte Arpone, “Tute Pere.”, mia seconda camminata. Uguale alla prima la parte del percorso in auto, ma ora si prosegue sino al colle del Lys, dove si posteggia. Si sale sulla destra, e la prima parte è discretamente ripida ma “pedalabile”. La seconda, invece… è una pietraia con neve!

     Camminare come Franckenstein è per me gioco da ragazzi, cosa che provoca le “incomprensibili” risate di Sergio e Giancarlo, risate che rischiano di soffocarli quando vado a “volare” sulla neve. Niente di rotto, ma questo mi rende ancor più legnoso e prudente. I soliti consigli anche oggi si sprecano: “Servono le pedule a collo alto… Sui sassi devi alzare bene le gambe, non devi allungare troppo il passo, devi tastare la consistenza di esse prima di lasciare l’appoggio sicuro, non avere fretta, etc. etc…”..     

Oggi niente botanica, ma…. “Quello che vedi laggiù è il Col Pianfum, e quello il Roccamoross. Laggiù è l’Uja del Calcant, e quelle sono le Lunelle……”.      

     La giornata è calda, e come la gita precedente sudo come una bestia. Così mi arriva ancora un consiglio: “E’ buona regola portare indumenti di ricambio onde non rischiare qualche accidente

…”.   

 

       La terza gita escursionistica (21 marzo) offre un terreno diverso. Sergio, consapevole che dopo le prime scarpinate con “scarpette da corsa” oggi ho in rodaggio le “pedule a collo alto” (che di già in un breve test di 3 km. mi hanno scorticato a sangue un dito…), ha scelto un percorso più scorrevole, anche se qualche timore produce in me trattandosi di trascorrer fuori l’intera giornata. Con noi oggi vi è Carla, consorte cuginetta, assente le volte precedenti causa una forte costipazione.

     “Porta un maglione di lana, mantellina per la pioggia, guanti, cappellino ed occhiali da sole. Porta della crema per il viso, dell’acqua (!), qualche panino e qualche crostatina di marmellata”. Il tempo è cambiato questa settimana, e correnti di aria fredda si sono di già fatte sentire, ma dopo le sudate sofferte nelle precedenti uscite (senza perdere mezz’etto di grasso!) chi come me patisce il caldo è poco propenso a recepire siffatti consigli. Così, anziché vestirmi da esquimese e riempire di maglioni ed eccetera il capiente zaino datomi da Sergio, mi preparo per un viaggio alle Maldive. Sostituisco la canottiera di cotone con una “da corsa” (per prendere il sole…), metto nello zaino dei calzoncini corti, ed invece di “cose” pesanti metto invece un golfino sbracciato. Indosso il solito camiciotto a maniche corte, così che spero proprio di non sudare troppo quest’oggi…  

     Questa volta la direzione è Lanzo, e di lì a raggiungere Chialamberto, luogo dell’ultima gita “Amici GSPTtini”. Si continua sino a Pialpetta, ed attraversato il paese si svolta seccamente sulla destra imboccando una strada ripida, tortuosa e stretta – ma asfaltata – che si conclude alla borgata Rivotti. A fianco di detta frazione, sita su di un prato che domina la valle di Lanzo, si erge quella che Sergio definisce “La chiesetta più fotografata della valle”.

     Primi passi ancora su asfalto, poi si procede su di uno sterrato quasi gemello, ma direi più bello, della tagliafuoco del Musinè. Per breve tratto si percorre un bosco di alti alberi, poi si esce all’aperto.      Di già si era sentito appena scesi dall’auto, ma qui pare il vento essere decisamente più tonico. Vento secco, e assai freddino…     

    Usciti dal bosco si sale in diagonale sul fianco della montagna avvicinandosi sempre più alle cime spruzzate di neve. Il vento freddo e tagliente mi brucia la pelle del viso, e continuamente tenta di far suo il giallo cappellino “casual” che incorona la mia testa (“non dimenticare il cappello e gli occhiali da sole…”).

     La strada pare una vecchia militare (e magari lo è…), perciò molto adatta alle Mountain Bike che non mi stupirei in estate veder sciamare a dozzine. Basta caricar la bici in auto e raggiungere Chialamberto; un buon riscaldamento e poi via, su per la ripida strada che conduce allo sterrato.

     Splendido il percorso lo è pure per un tosto allenamento podistico, fatto salvo il fatto che per quello occorre in auto raggiungere la frazione Rivotti. Lo sterrato sale assai dolcemente e, salvo alcuni strappetti, è scorrevolissimo.

     Si cammina senza fretta godendo di ogni cartolina colorata che si presenta di volta in volta allo sguardo. Ora qualche rudere di grangia, qualche fiore subito etichettato per nome da Carla, stalattiti e stalagmiti di ghiaccio disegnate da rivoli d’acqua scesi dall’alto, piccole isole di neve, pietraie con enormi massi in equilibri funambolici, ed a fianco e davanti noi montagne maestose con dirupi e ghiacciai. Nel cielo il vento dispettoso si diverte a continuamente scompigliare i ricami che le nuvole pazientemente tessono nell’azzurra tela. Da moltissimo non provavo queste sensazioni di pienezza spirituale, di gioia infantile, come di bimbo che scarta regali inattesi. Persino i piedi sembrano distratti dallo spettacolo grandioso che attraverso gli occhi penetra in me, così che permettono un camminare discreto.

     Il freddo si fa però via via più intenso. “Due gradi sotto zero”, dice Carla consultando il suo barometro da polso, due gradi che dato il vento proveniente dai ghiacciai che ci schiaffeggia paiono parecchi di meno. Allora, in vista di un gruppetto di vecchie grange (Gias Fontane – 2000 metri) si opta per uno “pranzo stop” riflessivo; se nulla cambia prenderemo la via del ritorno.

     Ormai mi sono messo addosso tutto quello che avevo, ma il freddo è entrato nelle ossa e l’unica speranza che ancora ho di sconfiggerlo risiede nei corposi panini che mi son portato appresso… Basteranno?

     Carla effettua una veloce ispezione, indi ci precede nel rudere meno rudere. Il fondo, al tatto pedestre, mi si presenta morbido come una spessa moquette ed al mio stupito indagare Sergio e Carla all’unisono rispondono: “E’ merda!… Un tappeto di petali di rose!…”.

     “Vedi – continua Sergio che delle montagne Piemontesi, Aostane, Liguri, Lombarde, Venete, Trentine ed Eccetera è vero conoscitore –  qui un tempo lontano la zona era abitata da villici nostrani la maggior parte dei quali, lentamente, scese a valle alla ricerca dell’oro. I restanti, per lo più anziani, vennero in seguito messi in fuga da animali mostruosi chiamati Vacchen. Enormi, pelosi, con lunghe ed affilatissime spade a incoronar la testa, perennemente incazzati e pronti a caricare ogni essere vivente che gli si presentasse d’innanzi.

Nel tempo si estinsero non trovando cibo sufficiente a sostenerli lasciando però tracce della loro presenza in queste grange lontane dai centri abitati. Gli escursionisti odierni le chiamano buse; tradotto, merde!”

     Non si sente profumo di sorta aleggiare nell’aria, cosi prendo posto a terra iniziando a scartare il primo panino… 

     Il vento ed il freddo non danno cenno di voler cambiare intenzioni, anzi, il primo ci da dentro a segare come un vero boscaiolo stakanovista. Il freddo non è da meno, e la mutevolezza delle nubi che vagano accanto e su di noi consigliano il ritorno.

     Nella discesa, malgrado il consiglio di legare forte le pedule al collo della caviglia, i piedi cominciano a rivolgermi qualche richiesta di grazia. E qui faccio una nuova scoperta. Dice Carla: “Non penserai mica che i nostri scarponcini siano babbucce di pelliccia, vero? Anche noi non vediamo l’ora di toglierli dai piedi…”. Così mi sfiora il pensiero che nella realtà il grande popolo degli escursionisti altro non sia che una comunità spiritual-masochista!

     Man mano che si scende il sangue ricomincia a prender vigore sciogliendo le intorpidite membra tanto che, sotto un’impalpabile nevischio che turbina come un folletto attorno a noi, ci fermiamo a spolpare un prato da piccoli – ma gustosissimi, si riveleranno in seguito – girasoli. Io, coltellino svizzero in mano, a raccogliere battendo a quattro gambe l’“orto”, Sergio e Carla ad indirizzarmi sull’obiettivo.

     Non crediate però sia mancata anche quest’oggi la lezione di botanica. Carla, sfarfallando come una Mellicta Athalia in calore, emette continuamente gridolini di giubilo: “Guarda, guarda: l’Epatica… Ecco le Pervinche…….Quelli sono Crocus… Guarda che belli “quelli là… ma non ricordo il nome!!!… Quella è la Tussilaga Farfara… Guarda guarda, una Carlina Acaulis… (cardone…). Quelle sono bacche della Rosa Canina. Quando sono mature si fanno delle pregiate marmellate… Questo con le palline è un Ginepro… (senza palline, Ginepra…). Questi sono Rododendri, e questa è la gemma per il fiore… Questo è invece un salice………”..

      Alla cugina non sfuggono però neppure gli uccelli, così quest’oggi ha visto: “Un pettirosso, un fringuello, un’aquila (o forse poiana), un codirosso (che non è pettirosso), ed un picchio…”.

     Breve sosta a Chialamberto per due cioccolate calde (loro) ed una grappa con caffè (io), poi ritorno a casa continuando a ridere e folleggiare come ragazzini. 


                                                                                                                            

     

 
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